Erano le nove in punto di sabato. Per i pignoli erano le ventuno.
Il commissario di polizia Aldo Casarosa prese il guinzaglio e lo agganciò alla pettorina del suo cane Mops, un carlino, che eccitatissimo si agitava rendendo come sempre l’operazione difficoltosa. Era felice di uscire.
Tutte le sere dopo cena facevano un giretto per le stradine del centro antico di Pisa, intorno casa, seguendo sempre lo stesso itinerario.
Una volta fuori dal portone si incamminavano a sinistra, lungo via S. Martino. Giunti in fondo alla strada, all’altezza delle Logge dei Banchi svoltavano a destra verso il Ponte di Mezzo. Un attento osservatore che si fosse soffermato a guardare il cane e l’uomo avrebbe notato quanto i due si somigliassero. Robusti e tarchiati, con zampe e gambe corte e muscolose, procedevano quasi trotterellando uno accanto all’altro in sintonia. Non giovanissimi, in soprappeso, avevano entrambi un respiro asmatico simile ad un rantolo, nel cane caratteristica della razza, nell’uomo caratteristica del fumatore.
Procedevano quindi senza fretta.
Attraversato il ponte l’itinerario cambiava a seconda del giorno. Di solito giravano a destra sul Lungarno Mediceo.
Nel fine settimana sulle spallette del fiume si assiepava una miriade di giovani per la consueta movida. E allora alla fine del Ponte di Mezzo, per evitare la confusione, svoltavano a sinistra e imboccavano il Lungarno Pacinotti.
Sebbene il commissario percorresse spesso questa strada, rimaneva sempre ammirato dallo spettacolo che si poteva godere. Il fiume, placido, scivolava tra le alte sponde che riflettevano nello specchio delle acque la luce gialla dei lampioni. Poi scompariva in fondo, ad una curva, andando a perdersi nella sua corsa verso il mare.
Costeggiando le spallette che correvano dritte fino al ponte successivo, l’ispettore proseguiva la sua passeggiata ora guardando in terra per evitare di inciampare sulle mattonelle sconnesse, ora ammirando gli antichi palazzi che si affacciano sull’Arno dall’una e dall’altra parte del fiume. Giunto all’altezza di piazza Carrara, come sempre il pensiero volava alla sua nipotina di cinque anni, Giulia, che chiamava il posto “la piazza dei neretti”. Qui infatti stazionavano numerosi giovani senegalesi che cercavano di vendere con un sorriso la loro merce a chi posteggiava nel largo spiazzo. Uno di loro una volta aveva regalato alla piccola un braccialetto portafortuna e da allora il luogo era stato così ribattezzato da lei.
E proprio in quella piazzetta, in pieno centro storico, da poco era stato commesso un orribile omicidio. La proprietaria di un antico negozio di stoffe che si affaccia con una ampia vetrata sulla piazza, una donna di 45 anni, era stata assassinata. Viveva al primo piano nell’appartamento sopra il negozio. Una scala interna li collegava. Il delitto era avvenuto al mattino presto subito dopo l’apertura. Non c’era stato nessun testimone.
Il caso era stato risolto in breve tempo dal commissario Salvini, che Casarosa non stimava per niente. Ma quello, lo doveva riconoscere, aveva individuato subito il colpevole, il marito della vittima, in genere il primo dei sospettati in casi simili. L’uomo non aveva alibi, erano state trovate le sue impronte sul coltello usato per l’omicidio, e aveva il movente. La coppia si era infatti separata da poco e lui rischiava, se avessero divorziato, di perdere ogni diritto sui beni cospicui della moglie. Gli elementi raccolti avevano portato alla sua incriminazione sebbene l’uomo continuasse a dichiararsi innocente. Tutti quindi erano soddisfatti che il colpevole fosse stato individuato e arrestato. Anche Casarosa. Risultato: il commissario Salvini aveva ottenuto il suo quarto d’ora di celebrità.
Era a questo che pensava mentre se ne andava tranquillo a zonzo col suo cane. Anche lui aveva partecipato al caso, ma solo in modo marginale, perché quello aveva subito accentrato tutto nelle sue mani, senza indagare in altre direzioni senza pensare che così facendo correva il rischio di tralasciare qualche dettaglio forse importante. Per lui due più due fa sempre quattro.
Casarosa lavorava invece in maniera diversa. Era solito scavare sempre a fondo, interrogare, informarsi, indagare prima di chiudere un caso, anche quando, come questo, sembrava di facile soluzione. Insomma un poliziotto alla vecchia maniera.
Ora tornando dalla sua passeggiata verso casa sembrava assorbito completamente nei suoi pensieri. Qualcosa di indefinibile aveva iniziato a ronzargli nella mente rendendolo inquieto. Arrotolava distratto intorno alla mano destra il guinzaglio, accorciandolo senza accorgersene. Almeno sino a quando Mops emise un leggero guaito che lo richiamò al presente.
– Scusa, amico mio – disse rivolto al cane e, allentato subito il guinzaglio, si chinò per una veloce carezza consolatoria.
La vaga sensazione, simile ad un tarlo, non lo abbandonava. E una volta a letto continuava a rigirarsi, inquieto, senza poter chiudere occhio. Altro che principe di Condè!
Solo verso l’alba era riuscito finalmente ad addormentarsi, ma con un sonno agitato per cui il mattino seguente si era svegliato stanco e di cattivo umore. Non sarebbe stata una buona giornata quella!
Alla sera però, al ritorno dal lavoro, a casa trovò una sorpresa inattesa che lo avrebbe consolato: la piccola Giulia. Alla vista della bambina la sua mente ebbe come un guizzo. Riuscì finalmente ad afferrare quella sensazione indefinita, quell’elemento dissonante che lo aveva perseguitato la sera e la notte precedenti. Si fece allora attentissimo per paura che il particolare gli sfuggisse di nuovo. Senza neanche sentire le voci della moglie e della nipotina, s’infilò rapido il giaccone e, assicurando che sarebbe rientrato presto, tornò in commissariato.
Qui recuperò l’incartamento del caso della donna assassinata dal marito. Sfogliò e rilesse tutto, rapporti testimonianze reperti. L’ora della morte era compresa tra le otto e le nove. Il delitto era stato scoperto dalla domestica arrivata come al solito alle nove. Ferite profonde erano state inferte prevalentemente sul torace e localizzate nel quadrante superiore di destra, nella regione ipocondriaca. L’omicida aveva infierito con ferocia, recidendo l’arteria omerale della vittima che forse aveva tentato di difendersi sollevando il braccio. Proprio sotto le unghie erano state rinvenuti residui biologici che però non appartenevano al marito. Casarosa non riuscì a trovare nessun cenno collegabile a ciò che gli era ronzato per la mente nelle ultime ventiquattrore. E la cosa non lo convinceva. Possibile che non ci fosse un testimone?
Il giorno dopo tornò nella “piazza dei neretti” dove la situazione era quella di sempre: numerosi ragazzi africani stazionavano nel parcheggio e indicavano, sbracciandosi, agli automobilisti posti liberi dove posteggiare, sperando in una mancia o in un acquisto. Il commissario camminava lentamente. Attraversando la piazza osservava con particolare attenzione il colorito movimento umano. Notò così che ogni ragazzo stava sempre nella stessa zona del parcheggio. Continuò a girare, consapevole che avrebbe in breve attirato l’attenzione di tutti quegli occhi neri come il carbone e perennemente vigili.
Infine si avvicinò al palazzo dove c’era il negozio della vittima, al momento chiuso. Notò sull’angolo un giovane appoggiato con le spalle al muro. Alto, magro con lunghe gambe, in testa un cappellino, una specie di basco fatto col filo di lana, a strisce orizzontali con i colori del suo paese, il Senegal. Tra le mani aveva la solita mercanzia. Osservava a sua volta l’uomo che passeggiava nella piazza, con i sensi attenti come un animale che per istinto di sopravvivenza sta sempre in guardia, non sapendo mai da dove e quando possa arrivare una minaccia.
Il commissario non lo guardava ma era consapevole dello sguardo dell’altro. A questo punto decise di passare all’azione. Si avvicinò al ragazzo e gli chiese se avesse un accendino. L’altro glielo diede e lui pagò senza discutere sul prezzo. Poi tirò fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette ancora chiuso, lo aprì, tolse la carta stagnola e prese, con tutta calma, una sigaretta. Se la mise in bocca e l’accese. Il giovane continuava ad osservarlo senza proporgli altre cose da comprare. Dopo aver tirato qualche boccata, con la sigaretta stretta tra i denti, si rivolse al ragazzo.
– Come vanno gli affari?
– Poco lavoro.
– Stai sempre qui a vendere?
-Sì, con mio fratello – disse indicando un ragazzo poco lontano.
– Lo sai cosa è successo?
-Sì, una donna è stata uccisa a casa.
– La conoscevi?
-Poco, ma lei era buona con noi. Nel suo negozio potevamo lasciare i pacchi tutte le sere.
Intendeva sicuramente i sacconi di plastica in cui tenevano tutta la merce da vendere e che di solito trasportavano faticosamente a spalla.
-Lo hai detto alla polizia?
-Non ho visto la polizia, io.
-Non eri qui quando è arrivata?
-No. Non ero qui.
-Ma era mattina. Non lavoravi?
-Io non ero qui.
Il commissario capì che c’era qualcosa che non voleva dire. Si chiedeva come procedere. Il ragazzo sembrava sveglio, forse sarebbe stato in grado di dargli qualche informazione. Decise comunque di provare.
-Senti – iniziò – io sono un poliziotto.
Al che l’altro si raddrizzò e si fece attento, preoccupato.
-Stai tranquillo, non m’interessa se hai il permesso di soggiorno. Mi capisci?
Il ragazzo fece un cenno d’assenso con la testa. Si chiedeva cosa volesse da lui quell’ometto basso, grasso e vecchio che diceva di essere un poliziotto.
-Allora, quando è arrivata la polizia qui non c’era nessuno di voi. Come mai? – chiese infine il commissario aspettando con calma che quello parlasse.
Il ragazzo non gli rispose subito, si capiva che valutava la situazione. Alla fine sembrò forse ritenerlo inoffensivo, sebbene fosse un poliziotto, una categoria dalla quale tutti loro cercavano di tenersi alla larga.
-Eravamo arrivati da poco. Ma poi siamo andati subito via – si decise alla fine ad ammettere.
-Non capisco…
-Quando arriva la polizia gli amici chiamano col cellulare e allora noi scappiamo via.
-Quali amici?
-Quelli che stanno nelle altre piazze o nelle strade vicino.
Ecco risolto l’enigma.
-Ma prima di andartene, non hai visto niente?
L’altro scosse il capo.
-Tu conosci il marito della donna uccisa?
-No, lui non lo conosco.
-E’ stato arrestato per l’omicidio.
Quello si strinse nelle spalle.
-Non conosco il marito, io conosco altro uomo.
-Sentilà ! Quale altro uomo? – domandò stupito. Nei verbali che aveva letto non si parlava di altri uomini.
-Quello stronzo con la macchina bianca grande. Lui proprio uno stronzo.
-Perché è uno stronzo?
-Lui arriva, sempre mette la sua macchina senza pagare. Va nel negozio e poi esce e va via. Mai compra da noi niente. Se gli parli ti dice vaffanculo.
– Veniva spesso costì?
– Io l’ho visto tanti giorni venire qui.
– Anche quel mattino?
– Non ci ho fatto caso.
– Che tipo era? Fisicamente. Giovane, vecchio?
-Non vecchio come te. Più giovane.
-Non sai il nome?
-Che ne so io del suo nome! Figurati.
Il commissario che aveva sperato in qualcosa di più rimase deluso.
-Però…- aggiunse il ragazzo.
-Però cosa? Che ti è venuto in mente?
-La sua macchina è bianca.
-Che marca?
-Non lo so, ma mi ricordo un poco la targa. A vederla sempre è facile.
Il giovane gli scrisse su un foglietto quello che ricordava della targa. Casarosa, ancora incredulo, comunicò col cellulare i dati all’agente che si sarebbe occupato di fare subito una ricerca per risalire al proprietario.
-Che hai trovato? – gli chiese appena varcata la soglia del commissariato.
-Il proprietario è Fulvio Barsotti, 40 anni.
-Che lavoro fa?
-Non sono riuscito a trovare niente.
-Vive d’aria?
-Boh! Però ha dei precedenti. E’ stato denunciato per aggressione, ma non ha avuto condanne.
-Bravo. Vedi di saperne di più. Tutto quello che trovi. E fatti aiutare a controllare i conti bancari della Cerri. In fretta se no non ci si leva più le gambe.
E fu così che l’indagine ripartì.
Venne fuori che la vittima ritirava con regolarità dal suo conto forti cifre che poi scomparivano. E sui verbali questo dato non era stato segnalato.
Casarosa decise di sentire la sorella della donna. Seppe così da lei che la Cerri aveva avuto una relazione e che per questo aveva lasciato il marito. Non sapeva dire però con chi.
A questo punto era costretto a informare non tanto il commissario Salvini, del quale non gliene fregava niente, ma il giudice se voleva ottenere un permesso per un colloquio col marito della vittima.
In carcere trovò un uomo distrutto che continuava a dirsi innocente. Da lui alla fine seppe il nome dell’amante della moglie: Barsotti.
Da quel momento, alla luce dei nuovi elementi, l’indagine procedette in maniera vorticosa.
Scoprirono che Barsotti era un giocatore incallito e aveva debiti in giro, forse anche con usurai. Non aveva alibi per l’ora del delitto e inoltre possedeva le chiavi dell’appartamento sopra il negozio. Ma la prova definitiva stabiliva che i reperti organici rinvenuti sotto le unghie della vittima erano suoi.
Fulvio Barsotti stava seduto e aspettava. Casarosa entrò lo guardò e si sedette a sua volta.
-Signor Barsotti, lei conosceva la signora Cerri, la donna assassinata? – iniziò senza preamboli.
-Sì certo, aveva un negozio.
-Non intendevo in quel senso.
-Ci avrò parlato.
-Pensi bene a quello che dice. Noi sappiamo che lei andava a trovarla regolarmente.
-No, solo qualche volta.
-Perché?
-Era una bella donna…
Il commissario lo osservò e poi a bruciapelo gli chiese:
-Dove si trovava il mattino del 18, quando la signora è stata uccisa?
-Ero al bar, a fare colazione – rispose pronto, troppo pronto e senza chiedere a che ora del mattino.
-Quale bar? C’è qualcuno che può confermarlo?
-Perché mi fa questa domanda?
-Sono domande che facciamo a tutti quelli che la frequentavano.
-Non è stato arrestato il marito per l’omicidio?
-Le domande le faccio io. Lei si limiti a rispondere.
Continuarono per ore. Alla fine dinanzi alle prove inconfutabili confessò. All’ennesima richiesta di denaro la donna si era rifiutata, aggiungendo che intendeva troncare la relazione. A quel punto aveva perso la testa e l’aveva massacrata con rabbia furiosa.
Adesso, il caso poteva dirsi chiuso.