
Agosto 1971
Il caldo è insopportabile. In questo corridoio manca l’aria e c’è un odore sgradevole, un misto di chiuso e di muffa. Sono seduta, sola. Aspetto.
La sedia è dura e scomoda. Attraverso il cotone sottile del vestito sento la frescura del metallo dello schienale. Ho la gola secca e tanta sete.
Dal vetro di una porta una luce bianca si allunga quasi fino ai miei piedi, il resto rimane in penombra. Quando sono arrivata, ho suonato al citofono e una voce di donna mi ha risposto. Ha detto di entrare e aspettare. Io sono entrata e aspetto.
Finora non ho incontrato nessuno. Strofino più volte sulla gonna le mani sudate e tremanti, inutilmente. Un attimo dopo le sento di nuovo umide. Il mio cuore sembra debba scoppiare da un minuto all’altro. Battiti furiosi mi rimbombano dentro, cupi. Dal petto si dilatano, arrivano allo stomaco, alla gola, alle orecchie, al cervello. Il respiro diventa irregolare, affannoso, mi manca l’aria. Cerco di mantenermi calma. Ho paura. Continuo a ripetermi che tutto andrà bene. Mantra inefficace. La gola ora mi si stringe quasi a soffocarmi. Cerco a fatica di fare un lungo e profondo respiro.
Aspetto.
Sento dei rumori provenire al di là della porta. Rumori metallici, come quando mia madre mette in tavola le posate. Che staranno facendo? Mica mangiano? A quest’ora? E qui? Impossibile. A tratti arriva anche un brusìo, come se una TV fosse accesa da qualche parte. I minuti passano, lenti lenti.
Aspetto.
Sono presa dall’ansia e dall’angoscia per quello che sta per accadermi. La porta all’improvviso si apre. Appare una donna. Più vicina ai sessanta anni che ai cinquanta. Bassa, robusta, stretta in un camice bianco troppo piccolo per lei, almeno due misure in meno. I bottoni tirano impietosi all’altezza della vita e sembrano voler saltare da un momento all’altro. Capelli corti, mossi e neri, non naturali, ma di quel colore tipico della tintura scadente, con una vistosa ricrescita bianca, incorniciano un volto rotondo, paffuto con gli zigomi pieni e rossi. Un viso come quelli delle contadine cinesi che ho visto in una rivista. La Cina è vicina. Occhi piccoli e tondi. Le mani sono tozze, le dita corte, le nocche grosse. La fede all’anulare sinistro sembra strozzare il dito. Come farà a toglierla? Neanche con il sapone ci riuscirà, ne sono certa. Non porta scarpe, ma pantofole sformate che strascina camminando. La sua vista mi suscita un senso di orrore e di ripugnanza insieme. Si avvicina. Mi osserva di sottecchi con i suoi occhi porcini.
Non chiede il mio nome né da dove venga né quanti anni abbia. Meglio non sapere che sono minorenne. Non le interessa, ma soprattutto ho la certezza che non vuole saperlo. A sua volta non si presenta.
“I soddi, l’hai?” chiede invece, per niente impacciata, con una voce rauca e catarrosa, tipica di chi fuma.
“Sì.”
“Bonu, mi dùgni dopu, quànnu finèmu.”
La guardo senza fiatare.
“Veni, veni càvia” e mi fa cenno con la mano di seguirla nell’altra stanza.
Mi alzo rassegnata. Le mie gambe pesanti come fossero di marmo non riescono a spostarsi. Alla fine con uno sforzo incredibile mi muovo e le vado dietro lentamente. Una bestia condotta al macello. Che di macello si tratta lo capisco appena entro. In mezzo alla stanza c’è un lettino col reggi gambe pronto. Accanto su un tavolino sconosciuti e minacciosi attrezzi, anche metallici. Mi sento svenire. Sono paralizzata dalla paura.
“Spogliati e settati cà” mi dice, indicandomi il lettino.
Mi spoglio, intimidita e spaventata. Non so esattamente cosa mi aspetti, ma so con certezza che sarà terribile.
Nella stanza ci siamo solo noi due.
Un orologio rotondo, con grandi numeri romani neri, è appeso in alto sul muro e segna le 19,26. La tv accesa ma muta trasmette un film con Greta Garbo, “La regina Cristina”. Lo riconosco, l’ho già visto
“Senti, se stai tranquilla ni sbrigamu presto. Non ti scantàre. Ne fazzu tanti. Sugnu infermiera.” Poco credibile.
A fatica mi siedo sul lettino. Tremo. Sono certa che morirò lì in quella squallida stanza, sola, macellata da una donna orribile alla luce bianca di un neon. Improvviso quasi a tradimento mi torna in mente il solito incubo che da tempo mi perseguita, appena chiudo gli occhi cercando nel sonno una tregua all’ansia e alla paura. Al risveglio rimango sempre angosciata e questo peso mi schiaccia. Un’immagina sfocata, come una pellicola fotografica in bianco e nero. Un’immagine in cui riesco a distinguere impresso qualcosa di rotondo che si muove dentro di me. Notte dopo notte questo incubo mi perseguita, implacabile.
La donna mi fa cenno di sdraiarmi e poi di scivolare in avanti, sul bordo. Quando sono sistemata nel punto che ritiene giusto dice:”Bonu, femmati cà” e mi solleva una gamba e poi l’altra per metterle sui braccioli metallici all’altezza del ginocchio. Si siede quindi su uno sgabello davanti al lettino.
Tengo gli occhi chiusi. Tremo. Forse se non guardo sentirò meno dolore.
Ora poggia una delle sue manacce callose e ruvide sul ventre e introduce due dita dell’altra mano senza alcun garbo dentro di me. La sento frugarmi e tirare. Insiste a lungo con questa operazione, senza badare ai miei lamenti. Quindi ritira le dita e solleva la mano dal ventre. Io sto sempre lì, a gambe divaricate. Rumore metallico. Prende qualcosa dal tavolino e cerca di infilarmela dentro. Una cosa fredda e dura che fa male. Mi lamento per il dolore.
“Non fare accussì, che sennò senti male. Rilassati. Fozza! Fatti mobbida“.
Cerco di fare come dice, ma la paura e il dolore m’irrigidiscono.
A questo punto lei s’innervosisce.
“Senti, stai camma e femma, fammi travagghiàri!”
La sento respirare in modo pesante, affannoso. Riesce alla fine, spingendo, a introdurre quella cosa che mi fa male. La lascia dentro, bloccata.
“Ora ti fazzu nà picchicedda mali. Fatti fozza e statti femma.”
Apro gli occhi, sollevo la testa e la guardo. Ha preso un tubicino lungo. Si gira di nuovo verso di me. Richiudo gli occhi. Sento la fronte umida, dietro la nuca i capelli sono bagnati, appiccicosi sul cuscino. Capisco che mi infila dentro il tubo. Vari rumori indecifrabili. All’improvviso mi sento risucchiare come se volesse aspirarmi dall’interno l’anima. Un dolore atroce e insopportabile. Sto per morire. Un urlo straziante riempie la stanza vuota. Dentro la mia carne lei continua, continua, continua. Implacabile. Sembra non finire mai.
Mi sento svenire. Se non fossi sdraiata a quest’ora sarei crollata a terra. Lei è imperterrita, insensibile ai miei lamenti, alle mie urla terrorizzate. Non aprirò più gli occhi. Non voglio vedere cosa mi farà ancora. La sento muoversi. Sta cercando forse un altro strumento di tortura? Quanto ci vorrà ancora?
Quando finirà?
Morirò dissanguata?
Morirò per un’infezione?
Morirò perché mi squarcerà la carne?
Ma perché sono dovuta venire fin qui, a farmi macellare?
“Fozza, che finemu presto.”
Quasi non sento più la sua voce, tanto sono stordita dal dolore e dalla certezza di star per morire. Con la cosa che ha preso dal tavolino di nuovo fruga brutale il mio ventre. Caccio un altro urlo. La cosa scava feroce dentro di me. Ad ogni movimento mi morde e mi strazia la carne.
Fra le gambe tremanti improvvisamente sento scorrere giù un liquido caldo. Acqua? Possibile? No, è sangue. Riconosco l’odore acre. Sono certa che morirò lì in quella squallida stanza, sola, macellata da una donna orribile alla luce bianca di un neon.
Un rumore spaventoso adesso fa da sottofondo al dolore. Come un cucchiaio che raschia un contenitore di plastica del gelato. Terrore puro.
Giro la testa.
20,08. Una Garbo sempre muta si agita nel suo bel costume tutto velluto e pizzi, con un enorme colletto bianco.
Quanto durerà ancora? Quanto potrò resistere? Al dolore oltre ogni immaginazione si aggiunge ora una pena indicibile per me stessa, crocifissa su quel lettino.
E se morissi qui? Che ne farebbero di me?